Puntare a cambiamenti sistemici: «È in ballo la sopravvivenza dell’umanità»

Peter Messerli, professore di sviluppo sostenibile all’Università di Berna, è consulente insieme ad altri scienziati dei capi di Stato per l’attuazione dell’Agenda 2030. Colloquio sul successo degli approcci promettenti, su uno stile di vita che salvaguardi le risorse e sul fallimento della politica.

Intervista: Peter Bader

Peter Messerli ha studiato e si è laureato in geografia all’Università di Berna. Il 52enne è oggi professore di sviluppo sostenibile all’Università di Berna, dove dal 2010 dirige il Centro interdisciplinare per lo sviluppo sostenibile e l’ambiente (Centre for Development and Environment, CDE). I suoi principali ambiti di ricerca riguardano la sostenibilità dei sistemi di utilizzazione del suolo in Asia e Africa sotto l’influsso dei cambiamenti globali. Per questo ha trascorso più di 10 anni in Madagascar, nel Laos e in altri Paesi del sud del pianeta. È sposato, ha tre figli e vive a Berna.
© Ephraim Bieri | Ex-Press | BAFU

Professor Messerli, da quasi tre anni codirige un comitato consultivo scientifico indipendente che pone le basi dell’attuazione dell’Agenda 2030 dell’ONU per uno sviluppo sostenibile. Qual è stato sinora l’incontro che l’ha colpito di più?

Peter Messerli: Sono stati tanti. Per esempio, quelli con gli scienziati delle discipline più disparate, nel corso dei quali abbiamo dovuto prima di tutto trovare basi comuni, creare i legami tra le singole discipline. Perché in ultima istanza si tratta del quadro d’insieme. Ma è impressionante anche la scena sulla quale siamo chiamati ad agire: lavoriamo su incarico dei capi di Stato del mondo, quindi abbiamo proprio la sensazione di essere ascoltati, il che non succede sempre come «poveri» scienziati (ride). Una volta ho partecipato a una videoconferenza dell’organo direttivo delle Nazioni Unite condotta dal segretario generale António Guterres. Devo ammettere che prima ero un po’ emozionato. Ma anche a questo livello si combatte per trovare soluzioni, proprio come in una normale riunione. Alla fine il Segretario generale ha lanciato un appello molto accorato a favore della sostenibilità. E mi ha proprio impressionato.

Nel settembre scorso il suo comitato ha pubblicato il primo rapporto all’attenzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Qual è stato il messaggio centrale?

Sappiamo abbastanza per poter agire. E le nostre conoscenze ci dicono che dobbiamo agire adesso, non quando sarà troppo tardi per la biodiversità, i cambiamenti climatici, le crescenti disuguaglianze o le tensioni sociali.

Come riuscirci?

Lo potremo fare concentrandoci non sul raggiungimento di singoli obiettivi di sostenibilità, ma puntando a cambiamenti sistemici. Pensi all’alimentazione, un sistema fortemente squilibrato a livello mondiale. Metà della popolazione è sottonutrita e l’altra è sovranutrita, la produzione alimentare è responsabile di gran parte della perdita di biodiversità e di quasi un terzo delle emissioni di gas serra. Se ci limitiamo ad aumentare la produzione a livello mondiale, miglioriamo forse la sicurezza dell’approvvigionamento alimentare, ma siamo penalizzati in termini di biodiversità o di cambiamenti climatici. Sono stati definiti quattro presupposti fondamentali sistemici: la produzione, i consumi e l’accesso alle energie rinnovabili per l’alimentazione, il quarto punto riguarda le città. Entro il 2050 il 70 per cento della popolazione mondiale vivrà nelle aree urbane. Il loro modo di alimentarsi o di consumare energia avrà un impatto determinante sulla sostenibilità globale. Con una trasformazione profonda di questi quattro sistemi riusciremo a ottenere un cambiamento planetario verso uno sviluppo sostenibile.

Ce la faremo davvero? Il solo fatto che i singoli obiettivi sono agli antipodi limita notevolmente le possibilità di successo.

Se contrapponiamo gli obiettivi tra loro rendiamo un pessimo servizio all’Agenda, perché al di là di tutto devono essere intesi come un’unità. È chiaro, le contraddizioni non sono da sminuire, ma abbiamo constatato che all’interno degli obiettivi di sostenibilità sono più numerose le sinergie delle contraddizioni. Per esempio, il sostegno all’istruzione delle donne in Africa ha un effetto positivo sulla salute dei bambini, il che a sua volta aumenta il livello di istruzione. Si tratta quindi di superare le contraddizioni con i cambiamenti sistemici di cui abbiamo parlato prima. In altri termini, dobbiamo scoprire come nutrire meglio un maggior numero di persone, tuttavia senza nuocere al clima o alla biodiversità. Se riusciamo in questo intento, gli obiettivi saranno davvero raggiungibili. Se invece consideriamo i singoli obiettivi isolatamente, non ce la faremo.

Che cosa occorre per ottenere cambiamenti concreti?

Il nostro gruppo di scienziati indipendenti ha stabilito quattro possibili «chiavi di soluzione». Dal momento che ne fanno parte il settore delle imprese e quello finanziario, si pone la domanda: dove e come dovrà crescere l’economia? Il Madagascar, dove mi trovavo nell’agosto del 2019, ha un grosso e legittimo diritto alla crescita economica, mentre in Svizzera dobbiamo cercare nuove forme di economia. Un’altra chiave importante è il comportamento individuale, ma sono decisive anche le regole del gioco in ambito politico: il fatto che le fonti energetiche fossili continuino a essere sovvenzionate in misura massiccia invece di ripercuotere sul prezzo i costi ambientali esterni è una catastrofe assoluta, quindi una regola del gioco che dobbiamo cambiare quanto prima. La quarta chiave è costituita dalla scienza e dalla tecnologia.

Qual è l’approccio risolutivo più importante?

L’idea che nessuno può farcela da solo, non lo Stato, non la società, non l’economia o la scienza. È necessaria una nuova forma di collaborazione. Non esistono innovazioni tecnologiche che funzionino come una cura miracolosa, piuttosto dobbiamo ancorare la tecnologia a regole del gioco politiche, la scienza deve collaborare molto più intensamente con i Governi o il settore privato. Tutti devono entrare in partita. E ogni Paese deve trovare la propria strada: creare i presupposti per la svolta energetica in Svizzera è completamente diverso dall’affrontarla in Madagascar. Le priorità cambiano da un Paese all’altro di conseguenza cambiano anche le combinazioni tra le varie chiavi.  È invece uguale per tutti la sfida di trovare un sano equilibrio tra l’uomo e l’ambiente e su questo fronte la Svizzera non è molto più vicina all’obiettivo del Madagascar.

È perché equipariamo uno stile di vita che salvaguardi il più possibile le risorse a una perdita personale?

Per molti è ancora così. Ma in Svizzera si fa sempre più strada un dibattito pubblico sui valori che può essere stimolato anche dal mondo scientifico: in quale mondo vogliamo vivere il nostro futuro? Un fine settimana a Barcellona è davvero indispensabile? Non è molto bello anche il lago di Neuchâtel? E già da tempo sempre più persone collegano a questo stile di vita non più un senso di rinuncia e di perdita, ma soprattutto innovazione, creatività e conquista di nuove libertà.

Dunque occorrerebbe piuttosto un ecopsicologo per indurre i necessari cambiamenti comportamentali? L’urgenza scientifica è nota da tempo.

Neppure un ecopsicologo ha la panacea di ogni male e non potrebbe farcela da solo. Siamo tutti parte di un sistema che deve cambiare. E fino a quando le emissioni di CO2 provocate dal traffico aereo o dal riscaldamento non avranno il giusto prezzo, neppure l’ecopsicologia può aiutarci. La società nel suo insieme ha bisogno di nuove regole che inducano una trasformazione nel singolo individuo. I necessari cambiamenti comportano l’interazione di diversi fattori d’influenza. Per rimanere all’esempio dei viaggi, potrebbe aiutare un’innovazione tecnologica che renda il traffico ferroviario più veloce, migliore e meno costoso. Nell’ambito dell’alimentazione dobbiamo prendere atto che già solo la produzione di carne bianca provoca sull’ambiente un danno 10 volte inferiore a quello della carne rossa, ma a sua volta è 10 volte superiore al danno provocato dalla produzione di frumento e riso.

Quale nota attribuisce alla Svizzera nei suoi sforzi per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità?

In media un 5, per molti aspetti la Svizzera è esemplare. Il problema è che, essendo mediocri su altri punti, i restanti sforzi vengono notevolmente sminuiti. Circa tre quarti degli impatti ambientali della Svizzera riguardano l’estero, quindi il nostro benessere ha un prezzo troppo alto. Su questo fronte il fallimento è totale. In realtà la valutazione complessiva sarebbe dunque insufficiente, ma non mancano sviluppi positivi: proprio l’UFAM si impegna molto per rendere consapevole il vasto pubblico di questi impatti ambientali «nascosti» all’estero. È la politica che non ha ancora reagito, non solo in Svizzera.

Questo la rende pessimista?

In realtà la situazione politica globale non induce a un grande ottimismo! E la popolazione non ha ancora realmente percepito l’Agenda 2030. Ma anche tra le imprese non esistono solo pecore nere ormai da tempo ed emergono molte innovazioni sostenibili. Il settore privato e la società civile mi inducono a ben sperare. E ne abbiamo bisogno, perché è in ballo la sopravvivenza del genere umano.

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Ultima modifica 04.03.2020

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