L’elaborazione dati – e le sue conseguenze : «Nuvole all’orizzonte digitale»

La trasformazione digitale porta con sé un enorme volume di dati e, allo stesso tempo, fornisce tecniche per scambiare informazioni nel modo più sicuro possibile. Tuttavia, per tornare effettivamente utili all’ambiente, questo formidabile potenziale d’impiego efficiente delle risorse va dapprima plasmato a tale scopo.

Testo: Lucienne Rey

Il punto di partenza della rete di autostrade informatiche che copre oggi l’intero pianeta si trova a Meyrin, una piccola località ginevrina. Proprio lì – più precisamente fra le mura del CERN, il Centro europeo per la ricerca nucleare – il fisico Tim Berners-Lee ideò, nel 1989, un metodo per scambiare informazioni tra numerosi computer interconnessi, ponendo così le basi per un sistema in grado di gestire enormi quantità di dati. Nel suo impianto più grande, il Large Hadron Storage Ring (LHC), il solo CERN genera ogni anno qualcosa come 50 milioni di gigabyte di dati da trattare. Per memorizzarli su un supporto ottico occorrerebbero 100 milioni di DVD che, impilati, formerebbero una colonna alta circa 12 chilometri. Questo diluvio di bits e bytes può essere elaborato solo collegando tra loro circa 170 reti informatiche distribuite su tutto il pianeta.

Megadati per conoscere il mondo

Da tempo non è più solo la ricerca di base che spera di ottenere informazioni dai megadati, o «big data», come gli esperti chiamano le raccolte di dati digitali di grandi dimensioni, complesse e poco ordinate. Il progetto di ricerca europeo Data-Driven Bioeconomy (DataBio), ad esempio, è orientato verso applicazioni ben tangibili. Sfruttando dati provenienti da varie fonti, intende migliorare la sostenibilità dell’agricoltura, della silvicoltura e della pesca.

Per la Svizzera partecipa al progetto DataBio anche Katarina Stanoevska-Slabeva, del dipartimento di ricerca sulla comunicazione digitale dell’Università di San Gallo. «Le tecnologie utilizzate sono estremamente complesse», ci dice. Per la pesca, ad esempio, i numerosi dati raccolti dalle moderne navi d’alto mare verrebbero collegati a quelli provenienti da altre fonti, ad esempio i satelliti. «I dati sulla temperatura, la saturazione di ossigeno e la salinità dell’acqua, così come le informazioni sui nutrienti disponibili, confluiscono in modelli che permettono di calcolare la probabilità di una presenza di banchi di pesci in determinate zone», spiega la professoressa. In tal modo, innanzitutto, le flotte di pescherecci potrebbero evitare le spedizioni di prospezione, che consumano molto carburante e generano quindi grandi quantità di CO2. Inoltre, le pratiche si farebbero più trasparenti, così da prevenire la pesca eccessiva. «La regolamentazione potrà fondarsi su dati molto più precisi», riassume la ricercatrice.

I progetti pilota realizzati da quando è stato avviato il progetto DataBio nel 2017 confermano che, grazie ai megadati, non solo la pesca diventerà più efficiente, ma anche l’agricoltura potrebbe riuscire a risparmiare acqua, fertilizzanti e pesticidi. Katarina Stanoevska-Slabeva è persuasa che si prospettino vantaggi anche per la silvicoltura poiché, come spiega: «soprattutto in foreste di grandi dimensioni o di difficile accesso, i dati satellitari possono segnalare in anticipo la presenza di popolazioni malate o contribuire al controllo delle specie esotiche invasive».

La nuvola e il consumo di materiale

Non è solo la ricerca a contare sulle reti informatiche per gestire i propri dati. Anche i servizi statali e altre organizzazioni affittano spazi offerti da fornitori esterni e archiviano così i loro dati nel cosiddetto «cloud». Tuttavia, il termine stesso – ossia «nuvola» – è fuorviante, poiché l’infrastruttura necessaria al funzionamento di questa tecnologia è tutt’altro che immateriale. Uno studio ha rilevato che nei centri di elaborazione dati della sola Germania sono state installate qualcosa come oltre 12 000 tonnellate di materiale elettronico che, a loro volta, contengono poco meno di 2 tonnellate d’oro, ben 7 tonnellate d’argento e quasi una tonnellata di palladio. Un consumo di materiali che verrà con ogni probabilità alimentato ulteriormente dagli innumerevoli sensori necessari per collegare gli elettrodomestici di uso quotidiano nell’«Internet delle cose» (Internet of Things, IoT).

Tuttavia, Olivier Jacquat della sezione Innovazione dell’UFAM non è preoccupato solo da questo crescente consumo di materiali, ma anche dalla presenza di metalli rari nei dispositivi finali, ad esempio nei nostri telefoni cellulari. «Poiché queste materie prime sono utilizzate solo in infime quantità, il loro riciclaggio è tecnicamente problematico», spiega. Per incoraggiare il recupero dei metalli rari, l’UFAM ha condotto diversi studi e progetti innovativi. Uno di questi ha messo a disposizione delle PMI uno strumento per valutare la loro dipendenza da queste risorse. Poiché i giacimenti di molti di questi metalli rari sono concentrati in pochi Paesi, nel caso di un’interruzione delle esportazioni c’è il rischio che un’impresa si ritrovi improvvisamente in rottura di stock. Gli apparecchi in circolazione diventano così una sorta di deposito virtuale di queste materie prime.

Tecniche energivore

Lo scambio e l’elaborazione dei dati consumano inoltre energia elettrica. Come possiamo leggere in un articolo del professore di informatica Friedemann Mattern, il funzionamento di Internet e la produzione dell’hardware necessario a questo scopo hanno consumato, nel 2012, 1230 terawattora, pari al 5 per cento del consumo globale di energia elettrica. Anche se i dispositivi diventano sempre più compatti ed efficienti, l’appetito di dati aumenta, come pure il consumo energetico della rete, il quale cresce a ritmi più rapidi rispetto all’efficienza del materiale informatico e sta slittando dal funzionamento dei dispositivi finali alla trasmissione e all’elaborazione dei dati. Gli esperti ritengono che entro il 2025 un quinto del consumo mondiale di elettricità servirà a far funzionare i centri di elaborazione dati, con le gravi conseguenze per il clima che ciò comporterà.

Anche il blockchain, o «catena di blocchi», un altro fenomeno della trasformazione digitale, è spesso associato al crescente consumo di elettricità. Si tratta di una sorta di contratto digitale, che viene criptato e memorizzato in modo decentrato su un gran numero di computer e che consente di effettuare transazioni senza ricorrere a un intermediario. Si potrebbe paragonarlo a un sistema in uso fino al XX secolo, le cosiddette «tacche di contrassegno», ossia le incisioni che, in caso di transazione commerciale, venivano praticate su un’assicella di legno prima di separarla in due. Conservando una metà dell’assicella, la persona era in possesso di una copia tangibile dei suoi diritti e doveri contrattuali. Riunendola nuovamente all’altra metà, poteva verificare se combaciavano o se nel frattempo l’altra era stata manipolata.

Il blockchain è un sistema analogo, che mira a proteggersi dalle falsificazioni. Il suo campo d’applicazione più noto è quello delle valute digitali, come il bitcoin. Tuttavia, il lungo processo di controllo della crittografia richiede molta energia, ed è così che, ogni anno, la moneta elettronica consuma una quantità di elettricità doppia rispetto a quella utilizzata dall’intera Danimarca. Ma il blockchain può anche favorire il risparmio energetico. Dal 2016, ad esempio, in un quartiere di New York i privati hanno la possibilità di scambiarsi l’energia solare generata sui loro tetti, senza passare dai servizi di intermediazione di un’azienda. Lo stesso sistema ha consentito di avviaree in Germania progetti pilota per fatturare automaticamente l’energia immagazzinata da veicoli elettrici. Il blockchain, infatti, contiene tutti i dati sulla produzione e la commercializzazione e garantisce la massima tracciabilità possibile di un prodotto. Ma sarà il futuro a dire se, in questo modo, sarà il mercato o la clientela a diventare più trasparente.

Dati dell’UFAM a disposizione della popolazione

L’UFAM gestisce numerose reti di misurazione e mette i dati ottenuti a disposizione della popolazione. I dati idrologici, ad esempio, sono alla base di applicazioni quali aare.guru, Aare Schwumm e Riverapp. Il motore di ricerca del registro SwissPRTR permette di individuare le imprese responsabili di emissioni di sostanze inquinanti che superano una soglia annua definita a livello internazionale (www.prtr.admin.ch). Con il test proposto su metal-risk-check.ch, infine, le aziende possono valutare approssimativamente la loro dipendenza dalle risorse di metalli «critici» e prendere eventuali contromisure.

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Ultima modifica 04.09.2019

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