Controllo: Cercasi soluzioni per questioni apparentemente insolubili

Oggigiorno è praticamente impossibile identificare le piante modificate mediante tecniche di editing genomico. L’UFAM ha pertanto incaricato il laboratorio cantonale di Basilea-Città di scoprire se esistano possibilità concrete per una loro rilevazione.

Testo: Christian Schmidt e Nicolas Gattlen

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Al laboratorio cantonale di Basilea-Città, i ricercatori studiano una procedura per la rilevazione delle piante geneticamente editate.
© Kilian Kessler | Ex-Press | BAFU

I piccioni svolazzano davanti alle ampie finestre e, come sempre, lo sbatacchiare delle loro ali è il rumore più forte che si sente. Anzi, sembra anche più marcato perché Claudia Bagutti e Melanie Schirrmann meditano, silenziose e concentrate, nella biblioteca del laboratorio cantonale di Basilea-Città (KLBS) su questioni alle quali ancora nessuno ha trovato una risposta. Claudia Bagutti è la direttrice del laboratorio di sicurezza biologica, Melanie Schirrmann è la sua più stretta collaboratrice. Fino a non molto tempo fa, per la precisione prima che nel 2012 venissero sviluppate le «forbici genetiche» con il nome di CRISPR/Cas, le procedure di lavoro delle due studiose erano ampiamente collaudate e regolamentate. Tra le altre cose dovevano controllare le piante di colza o erba medica rinvenute in porti o stazioni ferroviarie per rintracciare l’eventuale presenza di classiche modificazioni genetiche. Queste piante erano nate da sementi per lo più importate d’oltremare sotto forma di contaminazioni del grano duro e finite all’esterno durante il trasporto.

Nel caso in cui venivano trovate prove attestanti l’introduzione di materiale genetico estraneo nei vegetali, i reperti dovevano essere distrutti conformemente alle prescrizioni. La gamma delle possibili mutazioni genetiche era ben codificata, e questo consentiva alle istituzioni di competenza (come ad esempio il KLBS) di sviluppare procedure affidabili per la loro rilevazione. Anche i risultati dei controlli non lasciavano spazio a dubbi: le piante o erano modificate geneticamente o non lo erano.

L’ago nel pagliaio

Oggi, si è aperta una nuova era. La ricerca ha infatti messo a punto nuovi metodi per intervenire sul patrimonio genetico degli esseri viventi: il cosiddetto editing genomico. Si tratta di tecniche affascinanti con un potenziale enorme per lo sviluppo di nuovi prodotti, tanto che la ricerca parla di una possibile nuova «rivoluzione agraria.» Ed è proprio questo editing genomico che sta procurando grossi grattacapi a Claudia Bagutti e Melanie Schirrmann. Il motivo è presto spiegato: il KLBS deve scoprire su incarico dell’UFAM se e come si potrebbero elaborare metodi per la rilevazione delle piante geneticamente editate. Tali procedure servirebbero a controllare se piante di questo tipo approdano in Svizzera. L’UFAM ha deciso di affidare l’incarico al KLBS in virtù dell’ormai quasi ventennale esperienza di questo laboratorio nello sviluppo di metodi d’analisi per gli organismi geneticamente modificati.

Ma come è possibile rilevare modificazioni genetiche di cui non si è a conoscenza? Diversamente dall’UE e dalla Svizzera, infatti, in Paesi come gli Stati Uniti e il Canada molti vegetali modificati mediante tecniche di editing genomico non vengono classificati come «organismi geneticamente modificati» (OGM) e, quindi, non sottostanno ad alcun obbligo di etichettatura e rilevabilità.

Dal momento che le grandi aziende nordamericane non sono tenute a rendere di dominio pubblico le modificazioni genetiche, il tentativo di rintracciarle è simile alla famosa ricerca dell’ago nel pagliaio: si sa che esistono, eppure è estremamente difficile trovarle.

Prodotte naturalmente o artificialmente?

«A differenza della classica ingegneria genetica, l’editing genomico non permette di riconoscere gli interventi sul materiale genetico», spiega Claudia Bagutti. «Questo perché non è possibile distinguere le modificazioni indotte artificialmente dalle mutazioni che si verificano in modo del tutto naturale in ogni pianta. Le modificazioni prodotte mediante tecniche d’ingegneria genetica, pur avendo spesso un grosso impatto, sono talmente minime da perdersi nella gran quantità di variazioni naturali.» I metodi d’analisi utilizzati finora non hanno consentito di rilevare gli interventi artificiali, prosegue la direttrice del laboratorio. E nemmeno si profilano all’orizzonte idee concrete per nuovi metodi efficaci.

Claudia Bagutti e Melanie Schirrmann combattono contro gli stessi problemi che sono chiamati ad affrontare i colleghi nei laboratori di riferimento dell’Unione europea, con i quali portano avanti una stretta collaborazione: gli specialisti fanno chiarezza sul numero di piante editate geneticamente che sono già state ammesse negli Stati Uniti e classificate come «organismi non geneticamente modificati» (attualmente se ne contano una settantina: dal mais con più amido alla colza resistente agli erbicidi fino alle mele e ai funghi che non anneriscono in corrispondenza del taglio). Osservano il mercato nordamericano e si preparano ad affrontare il giorno in cui queste piante geneticamente editate potrebbe approdare nell’Unione europea e in Svizzera sotto forma di contaminazioni di importazioni agrarie. Infine cercano metodi che permettano di identificare le piante con genoma editato. Fino ad ora, però, senza successo: «Siamo tutti in balía degli eventi», conclude Claudia Bagutti.

C’è ancora speranza

L’incontro al laboratorio cantonale si trasforma così in una conversazione sulle opportunità e sui rischi della moderna biologia molecolare, in particolare ci si interroga sul motivo per cui le grandi aziende agrarie d’oltremare non debbano rendere noto dove e come intervengono sul materiale genetico con tecniche di editing genomico (per le più comuni modificazioni genetiche apportate finora agli organismi, i produttori di sementi dovevano sviluppare apposite procedure di rilevazione). Questa situazione complica la vita agli enti statali dell’UE e della Svizzera, che incontrano maggiori difficoltà nel farsi carico delle proprie responsabilità di organi di controllo.

Ma c’è ancora speranza. Da sempre, infatti, le grandi menti hanno saputo trovare soluzioni anche alle questioni apparentemente insolubili. Lo testimonia lo sguardo orgoglioso degli antenati ritratti nel vano scale del laboratorio cantonale: i vecchi chimici cantonali di Basilea con le loro barbe spazzolate avevano scoperto le gherminelle di bottegai imbroglioni che mescolavano alla farina di frumento la meno pregiata farina di mais o di miglio. Avevano il compito di provare la colpevolezza dei contadini che, malgrado il divieto, vendevano latte scremato o diluito con l’acqua. E, dopo la catastrofe di Chernobyl, i loro successori avevano dovuto affrontare la sfida di proteggere la popolazione dagli alimenti contaminati dalle radiazioni. Claudia Bagutti: «Se ripenso a quando iniziò a prendere piede l’ingegneria genetica, anche noi non avevamo la più pallida idea di come fare per rilevare le intromissioni. Fu davvero una grande sfida. Oggi, però, anche questa procedura è diventata routine.»

Il super-computer aiuta?

Non resta dunque che confidare nello sviluppo tecnologico futuro. Uno sviluppo che, non da ultimo, è legato alla potenza di calcolo dei computer e alla stretta collaborazione dei vari organi di controllo. «Apparecchi in grado di analizzare miliardi di coppie base in tempi relativamente rapidi offrono una possibilità concreta per distinguere le mutazioni al genoma di una pianta indotte dall’uomo rispetto a quelle naturali. Tutto ciò presuppone tuttavia l’esistenza, per i controlli, di una vasta banca dati delle piante geneticamente editate e non: una soluzione che un’istituzione, da sola, non può attuare.»

La separazione del flusso di merci è comunque
possibile

Ad oggi non è possibile identificare in laboratorio le nuove piante geneticamente editate. «Una rilevazione specifica è possibile solo se si è a conoscenza dei punti in cui sono state apportate piccole modificazioni al patrimonio genetico», afferma Markus Hardegger, direttore del settore Risorse genetiche e tecnologie presso l’Ufficio federale dell’agricoltura (UFAG). Tuttavia, se le informazioni di pertinenza sono accessibili al pubblico, anche senza metodi di rilevazione precisi ed affidabili è comunque possibile separare il flusso di merci e garantire la libertà di scelta. Hardegger fa riferimento a situazioni analoghe in relazione ad altri marchi: «Oggi, anche parecchi marchi (ad esempio Bio o Fairtrade) o i criteri che li regolamentano non possono essere controllati in maniera analitica. Però, se all’inizio di una filiera sono disponibili informazioni pertinenti sull’editing genomico, ogni marchio può salvaguardare la propria credibilità garantendo la separazione del flusso di merci.»

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Ultima modifica 29.05.2019

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